La querelle che contrappone blogger professionali e blogger amatoriali mi ha sempre visto schierata tra i primi, fin dai tempi in cui La Pizia ostentava la
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la prima regola del blog è che non si parla di blog". Non fosse altro che per la libertà di poter parlare di ciò che si vuole sul proprio blog, non ho mai capito che fastidio potesse dare che un gruppo di persone amasse riflettere sullo strumento usato, soprattutto se coincidente in tutto o in parte con l'ambito di lavoro (o di studio).
Oggi che la querelle pare contrapporre blogger professionisti e blogger amatoriali, mi trovo senza ombra di dubbio tra i secondi, per ragioni che hanno assai a che fare con riflessioni fatte in questi anni tutti insieme sull'economia del dono e sulla serendipità.
Quando dico che un blogger che ha cura del suo blog per obiettivi espliciti di guadagno o visibilità non è più un blogger non intendo nè esprimere giudizi moralisti, tipo "il denaro contamina", nè attribuire particolari connotati positivi alla figura del "blogger" in quanto tale. La mia è una pura definizione tecnica, una distinzione che prende le mosse dal gonzo marketing e dalla sua lode degli amatori e dei dilettanti.
Nel momento in cui un blogger gode delle ricadute positive della sua passione, del suo impegno libero e disinteressato, della sua generosità, l'intero sistema ne guadagna e niente viene sottratto alle dinamiche virtuose delle community (di tutte, non solo quelle blog based). Nel momento in cui un blogger perde la sua libertà perché scrive (o usa altri strumenti di comunicazione) in vista di un fine,
esce dall'economia del dono ed entra nell'economia di mercato: il suo scopo non è più il divertimento o la riflessione o la scrittura, ma un obiettivo preciso (che può anche essere assai positivo, come la copertura professionale di un argomento, non è questo in discussione).
Pur restando disinteressata a una precisa definizione di blog (o di community, o di social media) sono sempre più portata a identificare la soglia tra il divertimento (in senso letterale) e il lavoro in termini di necessità di mediazione. Meno sono libera di scrivere il cacchio che voglio, più quello che scrivo in rete diventa un lavoro, anche se non produce risultati economici (un buon esempio può essere mantenere posizioni in classifica, non dispiacere i lettori o aumentare la propria popolarità/link/commenti).
Le metriche, utilissime per chi cerca di capire e utilizzare professionalmente i social media (disclosure: io per prima), diventano deleterie nel momento in cui costituiscono uno scopo in sé. Questo è un pericolo più potenziale che reale, perché io continuo a vedere assai pochi esempi di manipolazione delle relazioni a scopo di aumento della propria popolarità. Me ne parlano in molti, ma alla richiesta di esempi concreti ricevo poche risposte.
Quello che vedo più pericoloso, in termini di contaminazione di una dinamica fertilissima di condivisione disinteressata, è l'ambizione di usare il proprio blog come trampolino di lancio per la visibilità sui media, la popolarità e la professione. Pericoloso non in assoluto, ma solo quando genera una scrittura paraprofessionale, la convinzione di dover "coprire" tutti gli argomenti e un'inconscia (ma anche no) mediazione tra ciò che si desidererebbe scrivere e ciò che conviene scrivere.
In quest'ultimo caso a mio parere sarebbe opportuna una maggiore consapevolezza del fatto che, a prescindere dallo strumento utilizzato, si esce da una dinamica sociale per entrare in una editoriale, cambiando a tutti gli effetti campo di gioco. Non ho niente contro i blogger professionisti, il nanopublishing e l'uso dei social media come strumento di diffusione di contenuti interessati (anzi): mi preme solo sottolineare come in questo caso l'abbandono dell'economia del dono determini una responsabilità maggiore e la rinuncia agli effetti positivi in termini sociali della parità con i propri interlocutori (che si trasformano in lettori e raramente riescono a ricambiare con la propria competenza quella messa a disposizione, interrompendo la crescita di valore del sistema). E' una questione di relazione, non di contenuti.
Mi piacerebbe che si avviasse un dibattito sereno su questo tema, anche se mi rendo conto di stare pestando un po' di calli e di rischiare anche l'effetto "da quale pulpito". Sempre più spesso negli ultimi mesi ho sentito l'effetto dell'"inconscia mediazione" di cui parlavo prima, non mi sento affatto esente dal problema, ma continuo ad attribuire un'enorme importanza alla libertà di poter avere uno spazio libero da qualunque interesse, anche dai miei.
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