I link dei maestrini su del.icio.us (tieni il puntatore sul link e compare la spiega)

15 ottobre 2008

Digital divide, mò basta

E' un po' di tempo che (mi) ripeto un concetto abbastanza semplice e cioè che le aziende hanno perfettamente capito che Internet è qui per restare e va gestito secondo le sue peculiarissime dinamiche sociali, ma ancora non sanno come, e stanno chiedendo aiuto. A noi. Che continuiamo a spiegargli che dovrebbero usare Internet, ma raramente come. 

In molti casi io penso ancora che "dipende" o "proviamo" siano le uniche risposte oneste a domande senza risposta. In moltissimi casi però il "come fare" è ormai chiaro e consolidato e la differenza tra una strategia fallimentare e una che funziona è una sola: un cliente competente. Cinque anni il mio miraggio era il cliente che "sa di non sapere" e si fida. Per fortuna ne incontro sempre di più così, quindi ho spostato il sogno: voglio dei clienti competenti, più di me se possibile, capaci di sfruttare la mia capacità progettuale fino in fondo. 

Uno dei modi migliori per farlo è condividere il più possibile tutto quello che so. L'ho sempre fatto in forme destrutturate, adesso forse è arrivato il momento di consolidare il tutto: è soprattutto per questo che ho accettato di coordinare questo Master in Marketing & Comunicazione Digitale, organizzato da Ifaf in collaborazione con Apogeo, insomma, tutti i crismi. Qui su Apogeo spiego meglio a Marco Traferri di cosa si tratta.

Il 27 ottobre 6 novembre a Milano presentiamo i contenuti del Master, che è organizzato in 4 moduli per un totale di 15 giornate. I moduli possono essere anche acquistati separatamente, le lezioni sono al sabato, che è un bell'impegno ma almeno può frequentarlo anche chi lavora. Nei prossimi giorni pubblicheremo sul sito Ifaf il dettaglio degli argomenti di ciascuna giornata.

Se sei interessato o conosci qualcuno che può esserlo, fammi un grande favore, mandamelo all'incontro del 6 novembre; è possibile iscriversi:
Ah, i docenti sono uno più bello dell'altro :-)

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19 luglio 2008

Blinko e il controllo

Settimana scorsa Buongiorno ha scelto di presentare il suo nuovo mobile social network con una via di mezzo tra un Barcamp e un convegno, dal tema "Why Mobile Social Networking matters". Ospite di richiamo nientepopo che David Weinberger.
Blinko è una nuova piattaforma che permette di gestire la propria presenza online da web e dal cellulare, gestendo status update (tipo Twitter), lista di amici e instant messenger.
Conoscendo la storia di Buongiorno fa una discreta impressione vedere una società in passato molto discussa per i metodi non propri ortodossi muoversi correttamente cercando il consenso dal basso e aprendosi al dialogo in modo così netto e rischioso. Interessante anche dal punto di vista del prodotto: passare dal direct marketing via mail e dalla vendita di prodotti di basso profilo come loghi e suonerie a una piattaforma di interazione orizzontale è sicuramente un segnale forte per il mercato, per i clienti e anche per gli inserzionisti. Segnale confermato anche dal nuovo codice di condotta varato proprio in questi giorni dalla Mobile Marketing Association, che prevede l'obbligo dell'opt-in per ricevere sms di marketing e soprattutto regole più chiare per l'acquisto e soprattutto la cancellazione da abbonamenti a contenuti a pagamento.
Tornando alla giornata di presentazione, non so dire se siamo riusciti a rispondere alla domanda "Perché le reti sociali su cellulare sono importanti": considero l'estensione delle funzionalità di community e social network sul cellulare un'evoluzione inevitabile e naturale del modo in cui interagiamo via Internet, qualcosa che dipende molto di più dalle tariffe telefoniche che dal perché e come farlo. Interessante che Weinberger abbia impostato il suo discorso a partire dall'impossibilità di prevedere il modo in cui le persone usano gli ambienti, reali o digitali che siano: lui lo definisce "elevator effect". A mio parere proprio l'imprevedibilità delle interazioni sociali possibili a partire da un numero anche limitato di persone è la risposta a quanti si chiedano se e come possa sopravvivere un nuovo - l'ennesimo - social network: è chi lo abita e lo frequenta che fa la differenza, purché le funzionalità siano abilitanti, veloci, non vincolanti. E ancora sono sempre più convinta che sia l'imprevedibilità dei comportamenti umani a rendere difficilissimo per le aziende un uso intelligente della rete: la comunicazione aziendale per funzionare deve poter contare sul controllo assoluto anche dei più piccoli particolari. Questo ha senso quando lo scopo della comunicazione è farsi ricordare: in rete, dove lo scopo è farsi trovare quando qualcuno cerca qualcosa che vendi (non il tuo "brand", ma il tuo prodotto) il controllo della situazione passa in secondo piano e conta molto di più la velocità, la pervasività, in sintesi la tua capacità di esserci quando serve ai tuoi clienti (e non quando decidi tu di parlare).

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21 aprile 2008

La dura verità



(via Paul isakson)

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10 aprile 2008

Povera scema

Ricevo una mail sconcertante:
Egregio Dottor De Baggis,

con piacere, e anche un pò di orgoglio, desidero farLe conoscere il nuovo Social Trends, il quadrimestrale dell'Istituto, costruito con il contributo di non pochi in xyz.

La testata intende diffondere le analisi e le riflessioni che sono frutto dell'esperienza di ricerca di xyz.

Spero sia una lettura utile anche se, forse, un pò impegnativa.
Con un cordiale saluto

Avrò forse un eccesso di autostima in corso, ma ho reagito piccata. Un pò.

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09 marzo 2008

I pezzi su Punto Informatico [NoLogo] li scrive Dr Jekyll: cerco di essere pacata, di prendere un po' di distanza, ogni tanto una zampata, ma con spirito costruttivo. Quando Mr Hyde prende il sopravvento lo lascio andare, sapendo che poi se proprio devo posso pubblicare qui. Questa per esempio la versione rabbiosa di "Di bit in peggio":

Ci sono due motivazioni alla base delle scelte che l'azienda media compie in rete: "lo fa qualcun altro" oppure "siamo i primi a farlo!!!".
L'ossessione tipicamente markettara del "me too" si sposa perfettamente con l'ossessione infantile tipica del manager medio di poter dire al superiore di aver fatto qualcosa che nessun altro mai, ma senza correre rischi. Questo è tanto più vero se considerate che di solito la richiesta è di fare qualcosa che hanno già tutti gli altri, ma per primi.

L’ossessione di arrivare “uno” è disturbante soprattutto in una situazione in cui attività come “registrarsi su Flickr e aprire un gruppo di foto di scarpe” richiedono un paio di riunioni, un preventivo, un’offerta, la richiesta di aprire una mail aziendale ad hoc, 118 slide di copia & incolla di screenshot di Flickr, il brain storming per scegliere il nickname e un documento che definisca come distinguere una foto di scarpe dalle altre. Delle due l'una: o il management medio non solo italiano condivide un unico neurone, e neppure funzionante, oppure - come credo - il mondo della rete, con i suoi valori e il suo linguaggio, è talmente lontano dal mondo delle aziende che alla fine uno dei due sostituirà l'altro. Si accettano scommesse.

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12 febbraio 2008

Di qualunque colore purché sia nero

Ieri sera prima di andare a letto mi è ricaduto l'occhio su questo post di Mafe su Punto Informatico. Sarà stato il post, sarà stata la peperonata, fatto sta che ho avuto un incubo. Ho sognato che andavo a letto, mi addormentavo e il mattino dopo mi svegliavo in una città grigia e piena di gente con lo sguardo triste che non poteva avere quello che desiderava.

Era un sistema economico in cui il governo e vari poteri forti decidevano cosa i cittadini possono avere e cosa no. Se decidevi di uscire per comprare qualcosa, potevi solo presentarti, in orari imposti, in un negozio e sperare che avessero la merce che desideravi. Spesso c'era un solo prodotto (se eri fortunato) che corrispondeva vagamente alle tue aspettative: non potevi sceglierne le funzioni, non potevi avere alternative basate sui tuoi bisogni reali. Potevi averlo di qualunque colore purché fosse nero.

Se desideravi qualcosa che non era disponibile in negozio ma sapevi esistere sul mercato, un commesso in divisa ti diceva con fare sgarbato e autoritario che non te lo avrebbe procurato. Spesso dovevi fare la fila per pagare, e dovevi accettare che il prodotto che acquistavi avrebbe potuto essere rotto. In quel caso, non avevi la certezza che ti sarebbe stato sostituito. Se te lo facevi spedire a casa, non avevi la certezza che sarebbe arrivato.

Se volevi comprare della musica, potevi scegliere solo tra quella selezionata per te da un organismo preposto.
Se volevi un film, non potevi averlo come era stato pensato e realizzato: lo potevi comprare solo doppiato, tagliato e rimontato dall'organismo preposto a decidere quale edizione del film era adatta al cittadino medio. Se volevi vedere un film nuovo, dovevi aspettarlo il tempo necessario perché le leggi e i negozi ti consentissero di acquistarlo: a volte anni. Se volevi sapere se il film era bello o brutto, potevi fidarti solo dell'opinione del commesso autoritario. A sentire lui, i film erano tutti bellissimi.

Non potevi confrontare i prezzi con altre offerte: tutti i negozi avevano più o meno gli stessi prezzi, nonostante tutti sapessero che quello stesso prodotto era disponibile sul mercato a prezzi nettamente inferiori. Se volevi acquistarlo dovevi essere disposto ad accollarti costi che, in un libero mercato, sarebbero a carico dell'impresa.

Era un bruttissimo sogno, era la negazione del mercato di libera concorrenza, era l'incubo di un'economia da socialismo reale.

Oppure no?

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26 gennaio 2008

[Repost] Punto Informatico: Business e libertà negate

Quest'anno ho perso le prime due puntate della tredicesima serie di ER - Medici in prima linea, con conseguenti crisi di disperazione e nervosismi nei confronti del servizio pubblico. Ho scoperto che la lunga astinenza era finita giusto in tempo per vedere la terza puntata, con bimbi già nati, nodi già sciolti e tutta una nuova storia in corso. Avrei voluto poter registrare la terza puntata e vedere prima le due puntate precedenti, ovviamente: in un mondo normale io dovrei poter acquistare o noleggiare le due puntate perse, pagando una cifra ragionevole (ai produttori, alla rete televisiva, a un servizio terzo, alla municipalità di Chicago, fate voi).

Invece no: l'unica chance che ho oggi in Italia di rivedere le due puntate perse della mia serie tv preferita è scaricarle abusivamente, alla faccia degli spot antipirateria. Anche i servizi di Personal Video Recorder offerti da Vcast o RickyRecords funzionano solo se programmi la registrazione prima, quando sarebbe così semplice mettere in vendita anche dopo almeno i programmi dai maggiori dati di ascolto.

Non a caso, uno degli annunci più rilevanti del keynote di apertura di Steve Jobs al MacWorld 2008 è stato l'iTunes Movie Rental, cioè la possibilità (per ora negli USA) di noleggiare un film online. Grandi applausi e invidie perché Steve Jobs sta riuscendo a replicare con i film il miracolo già fatto con la musica: convincere i distributori più importanti a vendere e a noleggiare i loro contenuti online a condizioni non vessatorie. Ora, ci si abitua a tutto, ma pensateci un attimo: vi sembra normale che sia necessaria abilità commerciale e fascino personale per convincere un distributore ad aumentare il proprio bacino d'utenza e a conquistare un nuovo mercato? Il problema non si pone solo con le merci digitalizzabili, come musica e film: è un mese che cerco di comprare un paio di scarpe di cui conosco modello, colore e misura (e prezzo, non indifferente). La mia unica chance è trovarle in un negozio che le ha in catalogo (online o offline, poco cambia). Posso ordinarle in negozio? No. Posso ordinarle al produttore? No.

Un esempio meno frivolo? L'anno scorso ho inseguito per mesi i commerciali delle compagnie telefoniche mobili (tutte e quattro) per poter avere l'onore di un contratto (business), mentre la loro pubblicità (consumer) impazzava ovunque girassi lo sguardo.

Le critiche e i fastidi nei confronti del marketing aziendale (quasi sempre identificato, anche dalle aziende, con la comunicazione) si concentrano esclusivamente sull'eccessiva pressione e manipolazione per spingerci all'acquisto di beni e servizi di cui non abbiamo bisogno e/o a un prezzo eccessivo. È ovvio: ci accorgiamo solo di ciò che vediamo. Più difficile fare caso a quello che non vediamo, e cioè i prodotti di cui abbiamo bisogno e che nessuno offre, i servizi che ci semplificherebbero la vita e che nessuno sembra in grado di offrire, come già notava Marlenus nei commenti a un precedente articolo.

In sintesi, ci manca la libertà di comprare ciò di cui abbiamo bisogno, come e quando ne abbiamo bisogno, senza dover sottostare alla burocrazia, al protezionismo e alla lentezza di aziende che sembrano incapaci di capire che "digital marketing" non significa "banner e DEM" ma un modo completamente nuovo di rispondere ai bisogni dei clienti: invece di cercare di indovinarli, basterebbe ascoltare.


Leggi gli altri "No Logo" su Punto Informatico

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14 gennaio 2008

Buttadentro

Sullo Strip:
You guys, do you wanna marry? Come on!

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18 ottobre 2007

No more slide pliz

Più o meno un anno fa cercavo di spiegare qual è il rischio che corrono gli editori incapaci di migliorare la propria offerta informativa (e pubblicitaria). Oggi (via Online Community Report) Trevor Edwards, uno dei corporate vice president di Nike, dice chiaro e tondo come potrebbe cambiare il rapporto delle aziende con i media con l'affermarsi di un medium dove un'azienda può comunicare senza dover acquistare spazi tabellari:
"We’re not in the business of keeping the media companies alive, we’re in the business of connecting with consumers.”

D'altra parte ha ragione anche Layla quando ci ricorda che:
"Oggi non è plausibile pensare che un solo mezzo, fosse anche Internet che certamente è più di un media, possa rispondere esaustivamente alle esigenze di marketing e comunicazione.

La conclusione è una sola: c'è un enorme spazio di mercato per un editore illuminato e un po' meno miope del solito. Ci sono volontari?

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06 giugno 2007

Il Coming Out del Digital Marketing

Voice from the stage: Now, repeat after me: "UCG!"
Marketing Men: UCG!
Voice from the stage: Power to blogger!
Marketing Men: Power to blogger!
Voice from the stage: What a fabulous overlayer!
Marketing Men: What a fabu...
Voice from the stage: That was a trick!
(libera parafrasi da In & Out di Frank Oz)

Ogni volta che partecipo a un evento come Interact, lo IAB Forum europeo a Bruxelles, ho sempre la percezione che ci sia uno iato preciso tra le dichiarazioni, le intenzioni e le azioni. Come racconta anche Mauro Lupi sullo scenario siamo d'accordo tutti: il consumatore è cambiato, ha preso il controllo della situazione e non lo fai più fesso facilmente, soprattutto in rete dove sgusciare via è più che facile. Le persone sono avanti anni luce (niente ti fa "evolvere" più del tuo interesse e questo non è un fenomeno che riguarda solo Internet), le aziende paiono aver capito e sono anche curiose, cosa manca ancora? Manca l'interprete principale, cioè chi deve prendere il briefing del cliente e trasformarlo in qualcosa che raggiunga gli obiettivi degli uni (chi lo paga) e degli altri (i destinatari).
Che siamo creativi, media planner o strateghi o cantinari, quando si arriva al che cosa fare praticamente siamo sempre ancora tutti lì: al tentare di bloccare il "target" sulla sedia per propinargli il nostro messaggio attentamente codificato, in una situazione il più possibile controllata e basata sulle informazioni che crediamo di avere.

Allo IAB ho sentito ancora dire che "i pubblicitari non capiscono le nostre metriche che non danno informazioni sociodemografiche": ma se con un atto di coraggio cominciassimo a creare sul serio il mercato? In un mezzo che aggrega per interesse che me ne frega di sapere se gli interessati sono maschio, femmina, scimmia o novantenni? I soldi di qualcuno fuori dal mio target puzzano? Il target è un concetto che fa comodo a noi, non al business. Semplifica la vita a editori e pubblicitari, non al cliente finale e neanche al fatturato. Se devo vendere scarpe da corsa le vendo a chi ama correre, non ai maschi bianchi che vivono in aree metropolitane, concetto utile solo se i media pianificati hanno vincoli fisici.

Insomma, ci si riempie la bocca di dialogo, conversazione, ascolto e coinvolgimento per poi tradurlo al solito modo: un bel filmatone "esperienziale", un bel concorsone "interattivo", un bel bannerone "bidirezionale", un bel negozione "conversazionale", un bel catalogone "personalizzabile". Come ha detto Esther Dyson, in rete la pubblicità per vendere deve avvicinarsi alle relazioni pubbliche, coltivando relazioni personali con gli influenti e comunicando con chi le informazioni le cerca attivamente (scusandosi quando si viene meno alle proprie promesse). Ma ahimè, le relazioni personali non si misurano un tanto al chilo e non si vendono a cpm (non ancora, almeno). Non è che non capisca i "colleghi": entrare in relazione diretta con i clienti è faticoso, richiede un'enorme evoluzione professionale, sudore quotidiano, nessun conforto da simpatici fogli Excel e il cliente pronto a innervosirsi così come è stato pronto a entusiasmarsi.

Allora almeno non prendiamoci in giro: chi è convinto che usare la rete come un medium broadcast funzioni la pianti di vergognarsi (che magari ha pure ragione) e la faccia finita di far finta di interessarsi alle community e al 2.0 etc etc. Invece di passare due giorni a negare la propria natura, come Kevin Kline in In & Out, si proclami serenamente che "le community sono una cagata pazzesca", così lasciate il mercato in mano agli idealisti come me e pochi altri ;-)

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