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09 marzo 2008

I pezzi su Punto Informatico [NoLogo] li scrive Dr Jekyll: cerco di essere pacata, di prendere un po' di distanza, ogni tanto una zampata, ma con spirito costruttivo. Quando Mr Hyde prende il sopravvento lo lascio andare, sapendo che poi se proprio devo posso pubblicare qui. Questa per esempio la versione rabbiosa di "Di bit in peggio":

Ci sono due motivazioni alla base delle scelte che l'azienda media compie in rete: "lo fa qualcun altro" oppure "siamo i primi a farlo!!!".
L'ossessione tipicamente markettara del "me too" si sposa perfettamente con l'ossessione infantile tipica del manager medio di poter dire al superiore di aver fatto qualcosa che nessun altro mai, ma senza correre rischi. Questo è tanto più vero se considerate che di solito la richiesta è di fare qualcosa che hanno già tutti gli altri, ma per primi.

L’ossessione di arrivare “uno” è disturbante soprattutto in una situazione in cui attività come “registrarsi su Flickr e aprire un gruppo di foto di scarpe” richiedono un paio di riunioni, un preventivo, un’offerta, la richiesta di aprire una mail aziendale ad hoc, 118 slide di copia & incolla di screenshot di Flickr, il brain storming per scegliere il nickname e un documento che definisca come distinguere una foto di scarpe dalle altre. Delle due l'una: o il management medio non solo italiano condivide un unico neurone, e neppure funzionante, oppure - come credo - il mondo della rete, con i suoi valori e il suo linguaggio, è talmente lontano dal mondo delle aziende che alla fine uno dei due sostituirà l'altro. Si accettano scommesse.

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26 gennaio 2008

[Repost] Punto Informatico: Business e libertà negate

Quest'anno ho perso le prime due puntate della tredicesima serie di ER - Medici in prima linea, con conseguenti crisi di disperazione e nervosismi nei confronti del servizio pubblico. Ho scoperto che la lunga astinenza era finita giusto in tempo per vedere la terza puntata, con bimbi già nati, nodi già sciolti e tutta una nuova storia in corso. Avrei voluto poter registrare la terza puntata e vedere prima le due puntate precedenti, ovviamente: in un mondo normale io dovrei poter acquistare o noleggiare le due puntate perse, pagando una cifra ragionevole (ai produttori, alla rete televisiva, a un servizio terzo, alla municipalità di Chicago, fate voi).

Invece no: l'unica chance che ho oggi in Italia di rivedere le due puntate perse della mia serie tv preferita è scaricarle abusivamente, alla faccia degli spot antipirateria. Anche i servizi di Personal Video Recorder offerti da Vcast o RickyRecords funzionano solo se programmi la registrazione prima, quando sarebbe così semplice mettere in vendita anche dopo almeno i programmi dai maggiori dati di ascolto.

Non a caso, uno degli annunci più rilevanti del keynote di apertura di Steve Jobs al MacWorld 2008 è stato l'iTunes Movie Rental, cioè la possibilità (per ora negli USA) di noleggiare un film online. Grandi applausi e invidie perché Steve Jobs sta riuscendo a replicare con i film il miracolo già fatto con la musica: convincere i distributori più importanti a vendere e a noleggiare i loro contenuti online a condizioni non vessatorie. Ora, ci si abitua a tutto, ma pensateci un attimo: vi sembra normale che sia necessaria abilità commerciale e fascino personale per convincere un distributore ad aumentare il proprio bacino d'utenza e a conquistare un nuovo mercato? Il problema non si pone solo con le merci digitalizzabili, come musica e film: è un mese che cerco di comprare un paio di scarpe di cui conosco modello, colore e misura (e prezzo, non indifferente). La mia unica chance è trovarle in un negozio che le ha in catalogo (online o offline, poco cambia). Posso ordinarle in negozio? No. Posso ordinarle al produttore? No.

Un esempio meno frivolo? L'anno scorso ho inseguito per mesi i commerciali delle compagnie telefoniche mobili (tutte e quattro) per poter avere l'onore di un contratto (business), mentre la loro pubblicità (consumer) impazzava ovunque girassi lo sguardo.

Le critiche e i fastidi nei confronti del marketing aziendale (quasi sempre identificato, anche dalle aziende, con la comunicazione) si concentrano esclusivamente sull'eccessiva pressione e manipolazione per spingerci all'acquisto di beni e servizi di cui non abbiamo bisogno e/o a un prezzo eccessivo. È ovvio: ci accorgiamo solo di ciò che vediamo. Più difficile fare caso a quello che non vediamo, e cioè i prodotti di cui abbiamo bisogno e che nessuno offre, i servizi che ci semplificherebbero la vita e che nessuno sembra in grado di offrire, come già notava Marlenus nei commenti a un precedente articolo.

In sintesi, ci manca la libertà di comprare ciò di cui abbiamo bisogno, come e quando ne abbiamo bisogno, senza dover sottostare alla burocrazia, al protezionismo e alla lentezza di aziende che sembrano incapaci di capire che "digital marketing" non significa "banner e DEM" ma un modo completamente nuovo di rispondere ai bisogni dei clienti: invece di cercare di indovinarli, basterebbe ascoltare.


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19 gennaio 2008

[REPOST] Punto Informatico: La mia identità in uno script

È dai tempi di The Net, film abbastanza tremendo con Sandra Bullock, che si parla di furto di identità come uno dei rischi della rete. Negli Stati Uniti le riviste di attualità sono piene di pubblicità di LifeLock, un servizio di monitoraggio dell'uso che viene fatto dei tuoi dati identificativi, del numero di carta di credito, del codice fiscale e simili. È vero: mandare a spasso versioni digitali di noi stessi sicuramente implica un aumento del rischio che qualcun altro si impadronisca dei "numeri" che fanno credere a terzi di avere a che fare con noi.

Come spesso accade, però, il furto d'identità più frequente è perfettamente legale e avviene quando un servizio online ci blinda al suo interno prendendo come ostaggio i nostri contenuti, la nostra storia, la nostra memoria digitale. In un ambiente basato su XML e con soluzioni già disponibili come OpenId, promosse adesso da organizzazioni come Dataportability, -la necessità di creare ogni volta un account e di ricostruire la nostra storia nasce solo per la precisa volontà dei diversi siti di attuare un lock-in nei nostri confronti, a volte morbido, a volte pesantissimo. Poter esportare il mio account e l'elenco dei miei acquisti da Amazon a Play.com sarebbe una gran comodità ma anche un danno economico per Amazon (o un ingiusto vantaggio per Play). Di chi sono quei dati? Miei o del servizio che mi ha dato gli strumenti per tenerne traccia?

Un paio di settimane fa Robert Scoble, il blogger diventato famoso per aver raccontato Microsoft dall'interno, è stato punito da Facebook per avere cercato con uno script di esportare il proprio profilo (completo di dati e di lista dei contatti) in un altro social network (Plaxo), senza dover rifare tutto da capo come ogni volta. Era suo diritto violare le condizioni di servizio di Facebook? La nostra memoria digitale ha un valore commerciale per i siti a cui la affidiamo, in cambio della quale riceviamo un servizio: è nostro diritto sfruttare le soluzioni tecnologiche che permettono di condividere con altri siti questa memoria? Basta che qualcuno decida di farlo, e se questo qualcuno si chiama Google, che con Open Social dichiara le sue intenzioni fin dal nome, agli altri non resta che adeguarsi (pian piano, certo).

È uno di quei rari casi in cui i nostri interessi, gli interessi commerciali e la tecnologia sembrano poter coincidere: Google (e il suo Open Social), Facebook e Plaxo hanno annunciato il loro ingresso nel gruppo di lavoro di DataPortability. La fattibilità tecnologica della portabilità dei dati personali è solo questione di "mettere i pezzi insieme", come recita il comunicato dell'annuncio: la sostenibilità economica della decisione di condividere i propri database utenti è ancora tutta da vedere.

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