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30 gennaio 2008

[x-view] Cloverfield

La videocamera indugia, si avvicina, mette a fuoco, è impossibile da abbandonare, protesi scoperta per caso e immediato prolungamento del proprio corpo, più mente che occhio. La videocamera - la macchina da presa - questa volta è in campo e si vede, perché noi vediamo solo ciò che vede colui a cui è stato chiesto di "documentare". Documentare una festa, una lite, una strage, la propria morte: morte che ha una fisionomia aliena su cui si indugia perché guardare, guardare è troppo bello, se sei nascosto dietro un obiettivo è irrinunciabile.

Non siamo più solo spettatori, ma guardare resta la droga che preferiamo: non guardiamo più quel che decidono gli altri ma quello che giriamo, montiamo, uploadiamo noi, che sia su YouTube o al cinema, che sia in privato o nel pubblico personalizzato della rete.

"Odio le telecamere. Preferisco ricordare le cose a modo mio" diceva il protagonista di Lost Highway, forse il film che più limpidamente di altri ci ha dimostrato l'orrore del buio, del non vedere, dell'essere tenuti all'oscuro. Cloverfield è il reale in presa diretta e innova non tanto nello stile - che da Blair Witch Project e da Dogma sono passati anni - quanto nella narrazione, nel suo portare alle estreme conseguenze il totale disinteresse nei confronti del plot, della verosimiglianza, anche dei personaggi.

Perfettamente a metà strada tra la realtà digitale degli ultimi Zemeckis e la fantasia realistica di film come Io non sono qui o Across the Universe, Cloverfield indica un'altra direzione al cinema, una direzione vicina al fantastico e sottovalutato Timecode di Figgis: la forma come lente che narrativizza il banale, in questo caso rappresentato da uno dei plot più classici del cinema catastrofico, riempendolo di significato che permetterà a chi vuole di divertircisi, al cinefilo di sognare.

Imperdibile, meglio se in versione originale.

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