Tu, lettore ipocrita, mio simile, mio fratello
Scrivere su un blog (che sia micro, normale o shakerato) è indubbiamente una forma ibrida di espressione che si insinua, mobile, in uno spazio mediano tra privato e pubblico che confonde le idee a chi approccia questo mondo dal di fuori (ma anche dal di dentro senza le opportune prudenze o consapevolezze).
"L'unica scrittura che vale qualcosa è quella che non è possibile pubblicare", scrive la Yourcenar: frase che mi gira in testa da quando l'ho letta perché mi sembra contemporaneamente la più adatta e la più lontana a descrivere quel che mi spinge ormai da tanti anni a scrivere qui.
Scrivere su un blog significa (pensare di) raccontare cose tue a persone che non conosci e che leggendoti penseranno di farlo, mentre tu rimarrai all'oscuro anche della loro esistenza. Ma davvero raccontiamo qualcosa di noi? La scrittura è un mediatore in/consapevole: io quando scrivo davvero non so chi è che parla, chi è che sceglie cosa dire, certo non so perché alcune cose le scrivo e altre no. Tanto meno saprei spiegare perché alcuni giri di frasi continuo a vorticarmi in testa e urgono e spingono e non sono affatto quelle che mi assomigliano di più. Anzi, posso dire per certo che qui prende vita ciò che di me non ha diritto di cittadinanza altrove, le strade smarrite o non percorse, le vite mancate, le alternative scartate. Un "come se" al contrario, un "what if" piuttosto.
Contrariamente a ciò che dice la Yourcenar, quel che esce è quello che mi sembra valer qualcosa al di là dell'esibizione o dell'autobiografia; ma come dice la Yourcenar, se chi mi legge cerca Mafe, questa scrittura non vale niente, perché qui di me c'è davvero poco. Come scrivevo un po' di tempo fa questo blog (questa me stessa digitale) non è in vendita, perché quello che scrivo qui è un regalo senza scopo e senza utile. Non è in vendita presso terzi e neanche per me stessa, ciò che scrivo qui non ha destinatari e non ha significati contestualizzabili. Le parole che alieno diventano di chi le legge: non a caso ogni volta che mi si manifesta qualcuno che leggendo qui crede di trovare me, la tastiera si blocca, la mia scrittura diventa a seconda dei casi concreta, frenata, esibita, autocompiaciuta, spaventata, comunque consapevole che il patto silenzioso con cui il lettore ignora l'autore è stato infranto. Se tu passi di qua per cercare informazioni su di me, e non le mie semplici parole, troverai poco di interessante, che tu sia un ex fidanzato, un collaboratore curioso, un corteggiatore a corto di idee, un parente pettegolo o tu lo sai (e io magari ancora no).
Non credo valga solo per me, al contrario credo che questo raccontar di sè mostrando altro, questa narrativa ibrida e in continuo divenire sia forse la mediazione più alta della rete come spazio in cui si vive in pubblico senza far troppa attenzione al privato; uno spazio che assomiglia incredibilmente a quello del gioco di cui Eugen Fink parla nel 1957 in Oasi del gioco:
"Il gioco è creazione originale, è una produzione. Il prodotto è il mondo del gioco, una sfera di apparenza, un ambito la cui realtà chiaramente non è ben definita. E tuttavia l'apparire del mondo del gioco non è semplicemente nulla. Ci muoviamo in esso mentre giochiamo, ci viviamo - certo a volte in modo leggero e oscillante, come nel regno del sogno, a volte però anche con un'infervorata dedizione e completamente sprofondati in esso. Una tale "apparenza" ha a volte una realtà e un impatto più forti e più vissuti, che non la compattezza delle cose quotidiane nella loro abusata routine. Che cos'è dunque l'immaginario? Dov'è il luogo di questo particolare apparire, di che ordine è?"
Scrivere su un blog di blog significa anche troppo spesso scivolare nell'ossimoro: il metalinguaggio implica una riflessione su se stessi sempre a rischio del ridicolo, eccola qui, Mafe che parlando di sè dice di non parlare di sè in un blog su cui tra l'altro non scrive da sola (ma quanti leggono anche il nome dell'autore?). Per chi apprezza i non sequitur che sono tali solo in apparenza, vale la pena di citare ancora Fink quando scrive che "Il gioco regala il presente". E io non cerco altro.
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